martedì 8 maggio 2018

sunshinechild@provider.xx


È l’alba di una bella mattina di primavera quando Iphigenia viene svegliata dal suono della sua stessa chitarra al di fuori della porta: qualcuno strimpella un paio di corde come se stesse cercando la nota giusta. Quando succede, inizia a suonare una canzone dolce, a volume basso, come le ninnenanne. La voce di un uomo adulto canta una strofa o due. Ha una bella voce, seppur non sia una voce che abbia una formazione accademica.


You are my sunshine, my only sunshine
You make me happy when skies are gray
You'll never know dear, how much I love you
Please don't take my sunshine away…

Quando Iphigenia apre gli occhi per davvero, non vede la luce dell’alba, e non è nella sua casa di China Town, la chitarra l’ha venduta per trenta dollari e non c’è Ross Kelly a cantarle una ninna nanna per svegliarla.
Ma è ancora primavera.

Le lenzuola attorno arrotolate attorno alle gambe ossute non asciugano il sudore freddo e il cuscino non riesce a soffocare il respiro pesante, e affannato, di chi ha appena corso molto a lungo senza fermarsi. Più che scendere dal letto rotola giù e, arrancando verso la porta del gabinetto quasi la sfonda per ficcare, nell’ultimo slancio, la testa dentro la tazza del water, accasciandovisi sopra all’ultimo momento. Vomita in due veloci colpi di tosse saliva, e bile e tutto quello che non alimenta più un corpo fatto di nervi e fede cieca e intenti e rabbia. 
Quando torna ad abbattersi sul materasso trascinandosi su due gambe che non sono più gambe, ma un ammasso di carne senza più utilità, vorrebbe davvero rispondere al messaggio sul cellulare e lo prende tra le dita ma sono fredde, e goffe, e tremano, e pesano.
Lo lascia cadere sul cuscino, dicendosi, ‘dopo’.

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